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lunedì 26 novembre 2012

Anestesia cosciente


E’ molto complesso costruire un inizio di un argomento del quale ne hai sempre ignorato l’esistenza. Non c’è un progetto alla base da tenere come punto di riferimento, avviene e basta e, nel momento in cui si verifica, non sai se ritenere di essere una persona sfortunata o se toccata dal divino.


Non è un avvenimento che riesco a condividere con tutti, forse per la rarità dei casi presenti in circolazione, forse per l’apparente assurdità che avvolge le mie parole ogni qual volta lo racconto, forse per quello stupido imbarazzo che abbiamo ogni qual volta dobbiamo parlare di qualcosa che tocca la nostra sensibilità. L’inspiegabile, l’impossibile si infrange spesso sulla nostra barriera protettiva del “non può essere”, quello scudo che ognuno di noi ha per non stravolgere ogni giorno ciò in cui ha sempre creduto e continua a sostenere con fermezza. Per un uomo poi, ammettere certe cose è follia, soprattutto per uno come me che cerca sempre una risposta a qualsiasi fenomeno, talvolta mascherando ogni forma di debolezza attraverso una risata o una battuta.

Ma io l’ho sentito, era con me, l’ho visto con me, si è manifestato per me.

Sono ormai passati sei anni dal mio ultimo pneumotorace spontaneo, quel particolare fenomeno in cui si crea una bolla d’aria tra il polmone e la membrana che lo riveste. Questi, non riuscendosi più ad aprire per via dell’ostacolo aeriforme sopraggiunto, non si espande quindi collassa: il drenaggio è la via di fuga per sopravvivere. Dopo questa pratica, che si faceva senza il minimo uso di anestesia, si passa all’intervento da sala.
Non è questa la sede dove voglio raccontarvi l’intera esperienza maturata all’interno del reparto di chirurgia toracica d’urgenza, sarebbe come parlare di cose già viste e già sentite, magari forse un giorno ritroverò il mio taccuino dove annotai istante dopo instante ironicamente la mia vita di un mese in quel reparto. 
Voglio raccontarvi del mio primo intervento, quello di 8 anni fa e di ciò che accadde.

Ero diciottenne e dopo qualche giorno di degenza mi furono applicati i primi drenaggi, uno apicale e l’altro adagiato comodamente fra le coste. Ricorderò sempre di conservare il primato nella mia regione per aver svolto il primo drenaggio in forma apicale, esattamente sul petto, con l’ausilio della forza di due medici per riuscire a conficcarlo. Di questo, all’interno dell’ ospedale, me ne vantai allegramente, tanto da non esitare a mostrarlo a tutti. Il mio modo di vedere le cose era come quello di un bambino al Luna Park, tanti amici nuovi, tanti nuovi discorsi da ascoltare, tante attrazioni. Pensai che pur essendo bucherellato ed in attesa di essere operato, dovevo essere io stesso a dar forza a chi mi era intorno usando l’ironia anche quando c’era dolore e non il contrario. La stessa ironia della sorte volle che io mi ritrovassi ad aver problemi con i polmoni, tanto da dover essere costretto ad asportarne una parte, anche quando non ebbi mai avuto un rapporto con una sigaretta.
Il giorno dell’intervento arrivò molto presto, ero contento perché da lì a breve sarei riuscito finalmente a tirare un respiro profondo a polmoni dilatati e non a singhiozzare per mantenermi in vita.

Francesco mi venne a prelevare la mattina alle 7.30, uno dei miei infermieri preferiti anche se quando non me ne accorgevo era sempre pronto a rubarmi interi pacchi di “Fiesta”. Mi rassicurò dandomi un colpetto sulla spalla, quindi raccattai i miei tre boccioni in vetro dei drenaggi, caricandoli sulla mia sedia a rotelle. Tutto pronto, si va!
Giunsi alle enormi porte della sala operatoria attendendo la luce rossa e ad un tratto, eccola spuntare più luminosa che mai. In breve tempo mi ritrovai disteso su un letto preparatorio: flebo fisiologica, qualche discorsetto sul Foggia calcio, poi sui nuovi rapper, generi musicali, politici vari ed eventuali della capitanata, un vecchio stratagemma utilizzato dagli infermieri per cercare di tranquillizzare il paziente. Dopo la preparazione fui spinto lungo un altro corridoio fino ad arrivare davanti a tutta la commissione d’esame al completo. La cattedra non era molto spaziosa ma comoda, di certo non potevo pensare di essere in un “Grand Hotel” nè pensare di ricevere trattamenti massaggianti da qualche bella ragazza. Erano tanti omini verdi, a malapena dalle mani e dai polsi riuscivo a capire se si trattasse di un uomo o una donna, quando improvvisamente l’anestesista mi fece la domanda sul peso e sull’altezza per somministrarmi la dose giusta di siero per addormentarmi totalmente. 
Otto anni fa infatti, l anestesia totale mi spiegarono successivamente, si somministrava endovena a seconda delle caratteristiche del paziente, ma una dose in più avrebbe potuto anche fare in modo che lo stesso non riuscisse più a svegliarsi. I casi che la storia ricorda, continuavano a dirmi al fine di tranquillizzarmi, erano frequenti.
Mi fecero altre domande per distrarmi, ma il mio campo visivo iniziava a distorcersi lentamente, anche le voci apparivano sempre più baritonali fino al momento in cui vidi buio per crollare in un brevissimo sonno. A questo punto inizia l’incredibile, ciò che credevo potesse mai accadere e che, nonostante il dolore da tortura medioevale percepito, annovera quest’esperienza come la più bella della mia vita.

All’improvviso sentii una voce, quella del primario:- Il ragazzo siete sicuri che stia nell’altro mondo? Sento vivo il polmone-
-Certamente dott. Sardelli, il ragazzo dorme- rispose uno degli infermieri
-Bene, iniziamo allora. Bisturi e tampone- continuò il primario

-Ma è questa l’anestesia totale? Ma come? non è come mi dicevano che si dorme e poi ci si sveglia quando è tutto già finito? Si è praticamente spettatori di un intervento. Vabbè, dai vediamo cosa fanno, tanto sono anestetizzato, non riesco neppure ad alzare le sopracciglia. E cos’è quest’aria? Cavoli che figata, non respiro ma l’aria mi entra ugualmente! E’ anche fresca! Merito del respiratore automatico, l’unico problema pensandoci bene è che vien voglia di vomitare perché questo grosso tubo nella trachea non è proprio il massimo della comodità- continuavo in preda a vari deliri per cercare di dimostrare a me stesso che la situazione era totalmente sotto controllo - ehi ehi, vacci piano con quel bisturi eh, va bene che non sentirò nulla, però sapere che a breve qualcuno farà un taglio sotto la mia ascella per poi divaricare le coste e tagliare un pezzo di polmone non è facile da ammettere. Chissà come fanno quelli che devono farlo al cuore, ce ne vuole di coraggio eh-

Sentii da li a poco subito la pressione delle dita del primario, il bisturi affondò in breve tempo la sua lama tagliente nella mia carne tracciando un solco profondo. Il bruciore fu intenso e la consapevolezza di avvertirlo fece immediatamente precipitare le mie sicurezze ed il mio totale controllo della situazione. 

Ero sveglio, ero vivo e cosa più difficile, non sapevo cosa e come fare per dimostrarlo.

Avrei voluto alzare un dito, aprire un occhio ma più mi sforzavo e più le mie speranze s’assottigliavano, ma ero convinto che l’ultima cosa che avrei fatto era quella di affidarmi a Dio. Provenivo infatti da un periodo di totale avversione ecclesiastica dopo aver vestito i panni di un ministrante per molti anni. Quel classico periodo adolescenziale dove si cercano le risposte, dove la fede cieca non basta e non è candidata a risolverle.

-Divaricatori-esclamò ancora Sardelli.
-Ed ora come faccio? E se avverto ancora dolore? Ma se continua e non se ne accorge? Ma devo stare durante tutto l’intervento in questo modo? Ma prima o poi funzionerà l’anestesia?- tante erano le domande che frullavano in modo disordinato nel mio contenitore razionale.
La pelle sotto l’ascella si aprì in due parti e mentre qualcuno teneva i lembi aperti, il divaricatore entrava per tenere aperte le coste. Il dolore fu talmente incontenibile da rassegnarmi ad accettare le cose così come stavano.

In quei momenti si riavvolge il nastro della cassetta vhs della propria vita, si innesca un meccanismo di difesa del nostro essere, una sorta di piano B entra in scena quando si accetta uno stato di cose che non si riesce a modificare. 

Il “rewind” mi portò indietro nel tempo, a quei ritorni in macchina dalla spiaggia ciottolosa di Mattinata cantando con la mia famiglia l’intero album di Lucio Dalla. Successivamente mi ritrovai in campagna, quando mio nonno mi accompagnava al calar del sole su per i campi, fino a raggiungere le pendici del Gargano spiegandomi la sua vita ai bordi d’un vallone, di quando vinse la sua sfida a cavallo con un domatore del circo, di quando si ritrovò con due dita tagliate per colpa di una caduta da un carro in corsa, dove aveva dimenticato di foderare la sua accetta. Poi arrivò Natale, dove nonostante i soliti problemi familiari che non ci portavano ad avere cene con i parenti, era un momento in cui c’erano sempre sorprese che attendevo con ansia. Tutti e quattro a mangiare roba per un reggimento per poi spostarci allo scoccare della mezzanotte sotto l’albero. Un treno di ricordi sferragliava senza alcun ordine.  Poi mi ritrovai all’uscita dalle scuole elementari, il sorriso di mio padre e di mia madre mi mettevano sicurezza, anche se non vedevo l’ora di tornare a casa per sedermi sul bracciolo della sedia di mio nonno e, prima che la pentola bollisse, lo obbligavo a leggermi una storia: l’avrei ascoltato per ore ed ore anche con i suoi continui errori causati dalla sua vista ormai andata. Mi lasciava fare tutto mentre leggeva, così gli attaccavo le mollette della biancheria alle orecchie. E poi ancora passarono dinnanzi a me le frittate con i panini semidolci di nonna Elsa, i giorni passati con lei a fare la pasta in casa come troccoli ed orecchiette.

Infine arrivò il taglio, il polmone fu reciso di colpo e nonostante i miei buoni propositi di non chiedere aiuto a quel Dio in cui più non credevo, fui costretto a rivedere le mie posizioni, anche se la speranza di uscire da quell’ incubo era davvero minima.
 Non mi affidai a lui direttamente ma al santo della città in cui sono nato, quel padre anticonformista che conosciamo tutti come Pio. Dilaniato e stremato dal dolore chiesi perdono per i miei peccati pregando di fare in modo che io riuscissi almeno a sollevare un dito per dimostrare ai medici che ero sveglio.

Alla fine del mio pensiero sentii caldo sulla guancia. Dall’occhio destro partì una lacrima.

-Ma voi siete matti, il ragazzo sta sentendo tutto! Guardate lì! L’avevo detto io che il polmone lo sentivo vivo! Fate immediatamente una nuova anestesia!- esclamò il primario.
Ora davanti a me c’erano le braccia del frate incorniciate in una aura splendente. Chiusi dolcemente gli occhi della coscienza adagiandomi fra le sue membra e mi risvegliai fra quelle di mia madre dicendole di “togliermi gli stracci che avevo sugli occhi”. Quegli “stracci” che continuavo a vedere non erano altro che le vesti di Padre Pio.

Dopo una settimana raggiunsi l’uscio dell’ospedale ed un etereo raggio di sole mi colpì in viso ed accolsi la sua carezza, poi una folata di vento ed entrai nel suo abbraccio, infine un respiro, lungo e senza impedimenti: fu come tornare a vivere.

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