E’ molto complesso costruire un inizio di un argomento del
quale ne hai sempre ignorato l’esistenza. Non c’è un progetto alla base da
tenere come punto di riferimento, avviene e basta e, nel momento in cui si
verifica, non sai se ritenere di essere una persona sfortunata o se toccata dal
divino.
Non è un avvenimento che riesco a condividere con tutti,
forse per la rarità dei casi presenti in circolazione, forse per l’apparente
assurdità che avvolge le mie parole ogni qual volta lo racconto, forse per quello
stupido imbarazzo che abbiamo ogni qual volta dobbiamo parlare di qualcosa che
tocca la nostra sensibilità. L’inspiegabile, l’impossibile si infrange spesso
sulla nostra barriera protettiva del “non può essere”, quello scudo che ognuno
di noi ha per non stravolgere ogni giorno ciò in cui ha sempre creduto e
continua a sostenere con fermezza. Per un uomo poi, ammettere certe cose è follia, soprattutto per uno come me
che cerca sempre una risposta a qualsiasi fenomeno, talvolta mascherando ogni
forma di debolezza attraverso una risata o una battuta.
Ma io l’ho sentito,
era con me, l’ho visto con me, si è manifestato per me.
Sono ormai passati sei anni dal mio ultimo pneumotorace
spontaneo, quel particolare fenomeno in cui si crea una bolla d’aria tra il
polmone e la membrana che lo riveste. Questi, non riuscendosi più ad aprire per
via dell’ostacolo aeriforme sopraggiunto, non si espande quindi collassa: il
drenaggio è la via di fuga per sopravvivere. Dopo questa pratica, che si faceva
senza il minimo uso di anestesia, si passa all’intervento da sala.
Non è questa la sede dove voglio raccontarvi l’intera
esperienza maturata all’interno del reparto di chirurgia toracica d’urgenza,
sarebbe come parlare di cose già viste e già sentite, magari forse un giorno
ritroverò il mio taccuino dove annotai istante dopo instante ironicamente la
mia vita di un mese in quel reparto.
Voglio raccontarvi del mio primo
intervento, quello di 8 anni fa e di ciò che accadde.
Ero diciottenne e dopo qualche giorno di degenza mi furono
applicati i primi drenaggi, uno apicale e l’altro adagiato comodamente fra le
coste. Ricorderò sempre di conservare il primato nella mia regione per aver svolto
il primo drenaggio in forma apicale, esattamente sul petto, con l’ausilio della
forza di due medici per riuscire a conficcarlo. Di questo, all’interno dell’
ospedale, me ne vantai allegramente, tanto da non esitare a mostrarlo a tutti.
Il mio modo di vedere le cose era come quello di un bambino al Luna Park, tanti
amici nuovi, tanti nuovi discorsi da ascoltare, tante attrazioni. Pensai che
pur essendo bucherellato ed in attesa di essere operato, dovevo essere io
stesso a dar forza a chi mi era intorno usando l’ironia anche quando c’era
dolore e non il contrario. La stessa ironia della sorte volle che io mi ritrovassi ad
aver problemi con i polmoni, tanto da dover essere costretto ad asportarne una
parte, anche quando non ebbi mai avuto un rapporto con una sigaretta.
Il giorno dell’intervento arrivò molto presto, ero contento perché
da lì a breve sarei riuscito finalmente a tirare un respiro profondo a polmoni
dilatati e non a singhiozzare per mantenermi in vita.
Francesco mi venne a prelevare la mattina alle 7.30, uno dei
miei infermieri preferiti anche se quando non me ne accorgevo era sempre pronto
a rubarmi interi pacchi di “Fiesta”. Mi rassicurò dandomi un colpetto sulla
spalla, quindi raccattai i miei tre boccioni in vetro dei drenaggi, caricandoli
sulla mia sedia a rotelle. Tutto pronto, si va!
Giunsi alle enormi porte della sala operatoria attendendo la
luce rossa e ad un tratto, eccola spuntare più luminosa che mai. In breve tempo
mi ritrovai disteso su un letto preparatorio: flebo fisiologica, qualche
discorsetto sul Foggia calcio, poi sui nuovi rapper, generi musicali, politici
vari ed eventuali della capitanata, un vecchio stratagemma utilizzato dagli
infermieri per cercare di tranquillizzare il paziente. Dopo la preparazione fui
spinto lungo un altro corridoio fino ad arrivare davanti a tutta la commissione
d’esame al completo. La cattedra non era
molto spaziosa ma comoda, di certo non potevo pensare di essere in un “Grand Hotel” nè pensare di ricevere trattamenti massaggianti da qualche bella
ragazza. Erano tanti omini verdi, a malapena dalle mani e dai polsi riuscivo a
capire se si trattasse di un uomo o una donna, quando improvvisamente l’anestesista
mi fece la domanda sul peso e sull’altezza per somministrarmi la dose giusta di
siero per addormentarmi totalmente.
Otto anni fa infatti, l anestesia totale
mi spiegarono successivamente, si somministrava endovena a seconda delle
caratteristiche del paziente, ma una dose in più avrebbe potuto anche fare in
modo che lo stesso non riuscisse più a svegliarsi. I casi che la storia
ricorda, continuavano a dirmi al fine di tranquillizzarmi, erano frequenti.
Mi fecero altre domande per distrarmi, ma il mio campo
visivo iniziava a distorcersi lentamente, anche le voci apparivano sempre più
baritonali fino al momento in cui vidi buio per crollare in un brevissimo sonno. A
questo punto inizia l’incredibile, ciò che credevo potesse mai accadere e che,
nonostante il dolore da tortura medioevale percepito, annovera quest’esperienza
come la più bella della mia vita.
All’improvviso sentii una voce, quella del primario:- Il
ragazzo siete sicuri che stia nell’altro mondo? Sento vivo il polmone-
-Certamente dott. Sardelli, il ragazzo dorme- rispose uno
degli infermieri
-Bene, iniziamo allora. Bisturi e tampone- continuò il
primario
-Ma è questa l’anestesia totale? Ma come? non è come mi
dicevano che si dorme e poi ci si sveglia quando è tutto già finito? Si è
praticamente spettatori di un intervento. Vabbè, dai vediamo cosa fanno, tanto
sono anestetizzato, non riesco neppure ad alzare le sopracciglia. E cos’è quest’aria?
Cavoli che figata, non respiro ma l’aria mi entra ugualmente! E’ anche fresca!
Merito del respiratore automatico, l’unico problema pensandoci bene è che vien
voglia di vomitare perché questo grosso tubo nella trachea non è proprio il
massimo della comodità- continuavo in preda a vari deliri per cercare di
dimostrare a me stesso che la situazione era totalmente sotto controllo - ehi
ehi, vacci piano con quel bisturi eh, va bene che non sentirò nulla, però sapere
che a breve qualcuno farà un taglio sotto la mia ascella per poi divaricare le
coste e tagliare un pezzo di polmone non è facile da ammettere. Chissà come
fanno quelli che devono farlo al cuore, ce ne vuole di coraggio eh-
Sentii da li a poco subito la pressione delle dita del
primario, il bisturi affondò in breve tempo la sua lama tagliente nella mia
carne tracciando un solco profondo. Il bruciore fu intenso e la consapevolezza
di avvertirlo fece immediatamente precipitare le mie sicurezze ed il mio totale
controllo della situazione.
Ero sveglio, ero vivo e cosa più difficile, non
sapevo cosa e come fare per dimostrarlo.
Avrei voluto alzare un dito, aprire un occhio ma più mi
sforzavo e più le mie speranze s’assottigliavano, ma ero convinto che l’ultima
cosa che avrei fatto era quella di affidarmi a Dio. Provenivo infatti da un
periodo di totale avversione ecclesiastica dopo aver vestito i panni di un ministrante
per molti anni. Quel classico periodo adolescenziale dove si cercano le risposte,
dove la fede cieca non basta e non è candidata a risolverle.
-Divaricatori-esclamò ancora Sardelli.
-Ed ora come faccio? E se avverto ancora dolore? Ma se
continua e non se ne accorge? Ma devo stare durante tutto l’intervento in
questo modo? Ma prima o poi funzionerà l’anestesia?- tante erano le domande che
frullavano in modo disordinato nel mio contenitore razionale.
La pelle sotto l’ascella si aprì in due parti e mentre
qualcuno teneva i lembi aperti, il divaricatore entrava per tenere aperte le
coste. Il dolore fu talmente incontenibile da rassegnarmi ad accettare le cose
così come stavano.
In quei momenti si riavvolge il nastro della cassetta vhs
della propria vita, si innesca un meccanismo di difesa del nostro essere, una
sorta di piano B entra in scena quando si accetta uno stato di cose che non si
riesce a modificare.
Il “rewind” mi portò indietro nel tempo, a quei ritorni in
macchina dalla spiaggia ciottolosa di Mattinata cantando con la mia famiglia l’intero
album di Lucio Dalla. Successivamente mi ritrovai in campagna, quando mio nonno
mi accompagnava al calar del sole su per i campi, fino a raggiungere le pendici
del Gargano spiegandomi la sua vita ai bordi d’un vallone, di quando vinse la
sua sfida a cavallo con un domatore del circo, di quando si ritrovò con due
dita tagliate per colpa di una caduta da un carro in corsa, dove aveva dimenticato
di foderare la sua accetta. Poi arrivò Natale, dove nonostante i soliti
problemi familiari che non ci portavano ad avere cene con i parenti, era un
momento in cui c’erano sempre sorprese che attendevo con ansia. Tutti e quattro
a mangiare roba per un reggimento per poi spostarci allo scoccare della
mezzanotte sotto l’albero. Un treno di ricordi sferragliava senza alcun ordine. Poi mi ritrovai all’uscita dalle scuole
elementari, il sorriso di mio padre e di mia madre mi mettevano sicurezza, anche se non
vedevo l’ora di tornare a casa per sedermi sul bracciolo della sedia di mio
nonno e, prima che la pentola bollisse, lo obbligavo a leggermi una storia: l’avrei
ascoltato per ore ed ore anche con i suoi continui errori causati dalla sua
vista ormai andata. Mi lasciava fare tutto mentre leggeva, così gli attaccavo le mollette della biancheria alle orecchie. E poi ancora passarono dinnanzi a me le frittate con i
panini semidolci di nonna Elsa, i giorni passati con lei a fare la pasta in
casa come troccoli ed orecchiette.
Infine arrivò il taglio, il polmone fu reciso di colpo e nonostante
i miei buoni propositi di non chiedere aiuto a quel Dio in cui più non credevo,
fui costretto a rivedere le mie posizioni, anche se la speranza di uscire da
quell’ incubo era davvero minima.
Non mi affidai a lui
direttamente ma al santo della città in cui sono nato, quel padre
anticonformista che conosciamo tutti come Pio. Dilaniato e stremato dal dolore
chiesi perdono per i miei peccati pregando di fare in modo che io riuscissi
almeno a sollevare un dito per dimostrare ai medici che ero sveglio.
Alla fine del mio pensiero sentii caldo sulla guancia. Dall’occhio
destro partì una lacrima.
-Ma voi siete matti, il ragazzo sta sentendo tutto! Guardate
lì! L’avevo detto io che il polmone lo sentivo vivo! Fate immediatamente una
nuova anestesia!- esclamò il primario.
Ora davanti a me c’erano le braccia del frate incorniciate
in una aura splendente. Chiusi
dolcemente gli occhi della coscienza adagiandomi fra le sue membra e mi
risvegliai fra quelle di mia madre dicendole di “togliermi gli stracci che
avevo sugli occhi”. Quegli “stracci” che continuavo a vedere non erano altro
che le vesti di Padre Pio.
Dopo una settimana raggiunsi l’uscio dell’ospedale ed un etereo
raggio di sole mi colpì in viso ed accolsi la sua carezza, poi una folata di
vento ed entrai nel suo abbraccio, infine un respiro, lungo e senza impedimenti:
fu come tornare a vivere.

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